domenica 19 luglio 2009

Il mito di Sisifo

Gli dei avevano condannato Sisifo a far rotolare senza posa un macigno sino alla cima di una montagna, dalla quale la pietra ricadeva per azione del suo stesso peso. Essi avevano pensato, con una certa ragione, che non esi­ste punizione più terribile del lavoro inutile e senza speranza.
Se si crede ad Omero, Sisifo era il più saggio e il più prudente dei mortali; ma, secondo un'altra tradizione, tut­tavia, egli era incline al mestiere di brigante. Io non ve­do in questo una contraddizione. Sono diverse le opinio­ni riguardanti le cause per le quali divenne l'inutile la­voratore degli inferi. Gli vengono rimproverate anzitutto alcune leggerezze commesse con gli dei, in quanto svelò i loro segreti. Egina, figlia di Asopo, era stata rapita da Giove. Il padre si sorprese della sparizione e se ne lagnò con Sisifo, il quale, essendo a conoscenza del rapimento, offerse ad Asopo di renderlo edotto, a condizione che questi donasse acqua alla cittadella di Corinto. Ai fulmi­ni celesti, egli preferì la benedizione dell'acqua, e ne fu punito nell'inferno. Omero ci racconta pure che Sisifo ave­va incatenato la Morte. Plutone, non potendo sopportare lo spettacolo del suo impero deserto e silenzioso, mandò il dio della guerra, che liberò la Morte dalle mani del suo vincitore. Si dice ancora che Sisifo, vicino a morire, volle imprudentemente aver una prova dell'amore di sua mo­glie, e le ordinò di gettare il suo corpo senza sepoltura nel mezzo della piazza pubblica. Sisifo si ritrovò agli in­feri, e là, irritato per un'obbedienza così contraria al­l'amore umano, ottenne da Plutone il permesso di ritor­nare sulla terra per castigare la moglie. Ma, quando ebbe visto di nuovo l'aspetto del mondo, ed ebbe gustato l'ac­qua e il sole, le pietre calde e il mare, non volle più ri­tornare nell'ombra infernale. I richiami, le collere, gli avvertimenti non valsero a nulla. Molti anni ancora egli visse davanti alla curva del golfo, di fronte al mare scin­tillante e ai sorrisi della terra. Fu necessaria una sentenza degli dei. Mercurio venne a ghermire l'audace per il ba­vero, e, togliendolo alle sue gioie, lo ricondusse con la for­za agli inferi, dove il macigno era già pronto.
Si è già capito che Sisifo è l' eroe assurdo, tanto per le sue passioni che per il suo tormento. Il disprezzo per gli dei, l'odio contro la morte e la passione per la vita, gli hanno procurato l' indicibile supplizio, in cui tutto l'essere si adopra per nulla condurre a termine. È il prezzo che bisogna pagare per le passioni della terra. Nulla ci è detto su Sisifo all'inferno. I miti sono fatti perché l'immagina­zione li animi. In quanto a quello di cui si tratta, vi si ve­de soltanto lo sforzo di un corpo teso nel sollevare l'enor­me pietra, farla rotolare e aiutarla a salire una china cen­to volte ricominciata; si vede il volto contratto, la gota appiccicata contro la pietra, il soccorso portato da una spalla, che riceve il peso della massa coperta di creta, da un piede che la rincalza, la ripresa fatta a forza di braccia, la sicurezza tutta umana di due mani piene di terra. Al termine estremo di questo lungo sforzo, la cui misura è data dallo spazio senza ciclo e dal tempo senza profondi­tà, la meta è raggiunta. Sisifo guarda, allora, la pietra pre­cipitare, in alcuni istanti, in quel mondo inferiore, da cui bisognerà farla risalire verso la sommità. Egli ridiscende al piano.
È durante questo ritorno che Sisifo mi interessa. Un volto che patisce tanto vicino alla pietra, è già pietra es­so stesso! Vedo quell'uomo ridiscendere con passo pesan­te, ma uguale, verso il tormento, del quale non conoscerà la fine. Quest'ora, che è come un respiro, e che ricorre con la stessa sicurezza della sua sciagura, quest'ora è quel­la della coscienza. In ciascun istante, durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dei, egli è superiore al proprio destino. È più forte del suo macigno.
Se questo mito è tragico, è perché il suo eroe è coscien­te. In che consisterebbe, infatti, la pena, se, ad ogni pas­so, fosse sostenuto dalla speranza di riuscire? L'operaio d'oggi si affatica, ogni giorno della vita, dietro lo stesso lavoro, e il suo destino non è tragico che nei rari momen­ti in cui egli diviene cosciente. Sisifo, proletario degli dei, impotente e ribelle, conosce tutta l'estensione della sua miserevole condizione: è a questa che pensa durante la discesa. La perspicacia, che doveva costituire il suo tor­mento, consuma, nello stesso istante, la sua vittoria. Non esiste destino che non possa essere superato dal disprezzo.

Se codesta discesa si fa, certi giorni, nel dolore, può farsi anche nella gioia. Questa parola non è esagerata. Im­magino ancora Sisifo che ritorna verso il suo macigno e, all'inizio, il dolore è in lui. Quando le immagini della ter­ra sono troppo attaccate al ricordo, quando il richiamo della felicità si fa troppo incalzante, capita che nasca nel cuore dell'uomo la tristezza: è la vittoria della pietra, è la pietra stessa. L'immenso cordoglio è troppo pesante da portare. Sono le nostre notti di Getsemani. Ma le verità schiaccianti soccombono per il fatto che vengono cono­sciute. Così Edipo obbedisce dapprima al destino, senza saperlo. Dal momento in cui lo sa, ha inizio la sua tra­gedia, ma, nello stesso istante, cieco e disperato, egli ca­pisce che il solo legame che lo tiene avvinto al mondo è la fresca mano di una giovinetta. Una sentenza immane risuona allora: "Nonostante tutte le prove, la mia tarda età e la grandezza dall'anima mia mi fanno giudicare che tutto sia bene." L'Edipo di Sofocle, come Kirillov di Dostoevskij, esprime cosi la formula della vittoria assur­da. La saggezza antica si ricollega all'eroismo moderno.
Non si scopre l'assurdo senza esser tentati di scrivere un manuale della felicità. "E come! Per vie cosi angu­ste?". Ma vi è soltanto un mondo. La felicità e l'assurdo sono figli della stessa terra e sono inseparabili. L'errore starebbe nel dire che la felicità nasce per forza dalla sco­perta assurda. Può anche succedere che il sentimento del­l'assurdo nasca dalla felicità. "Io reputo che tutto sia be­ne" dice Edipo e le sue parole sono sacre e risuonano nel­l'universo selvaggio e limitato dell'uomo, e insegnano che tutto non è e non è stato esaurito, scacciano da questo mondo un dio che vi era entrato con l'insoddisfazione e il gusto dei dolori inutili. Esse fanno del destino una que­stione di uomini, che deve essere regolata fra uomini.
Tutta la silenziosa gioia di Sisifo sta in questo. Il de­stino gli appartiene, il macigno è cosa sua. Parimente, l' uomo assurdo; quando contempla il suo tormento, fa ta­cere tutti gli idoli. Nell'universo improvvisamente resti­tuito al silenzio, si alzano le mille lievi voci attonite del­la terra. Richiami incoscienti e segreti, inviti di tutti i volti sono il necessario rovescio e il prezzo della vittoria. Non v'è sole senza ombra, e bisogna conoscere la notte. Se l'uomo assurdo dice di sì, il suo sforzo non avrà più tregua. Se vi è un destino personale, non esiste un fato superiore o, almeno, ve n'è soltanto uno, che l'uomo giu­dica fatale e disprezzabile. Per il resto, egli sa di essere il padrone dei propri giorni. In questo sottile momento, in cui l'uomo ritorna verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, con­templa la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguar­do della memoria e presto suggellato dalla morte. Cosi, persuaso dell'origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora.
Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch'egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pie­tra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammanta­ta di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Biso­gna immaginare Sisifo felice.

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